L’arte del guardare

Riceviamo da Andrea Laiolo questo piccolo gioiello, nel quale con maestria l’autore mette in collegamento epoche diverse, opere lontane tra loro e infine protagonisti differenti ma che sono tutti legati da un unico filo che consiste nel saper guardare oltre le minute apparenze. Così Laiolo riesce a dare al “nostro” Conolly origini ancora più lontane e nobili di quelle che ci siamo sempre sforzati di riconoscergli.

di Andrea Laiolo

Era appena stata collocata nella chiesa. La grande croce dipinta terminata da pochi giorni ora fronteggiava il suo autore, sospesa alla parete assegnatale come dimora. Il pittore stava in piedi e fissava lo sguardo contemplativo sulla figura di Cristo. Come lo aveva rappresentato? Degnamente: come un re immolato. La grande aureola dorata si levava come un sole glorioso dietro il capo reclinato nella morte; gli occhi chiusi dormivano in un sogno di sofferenza, e l’attesa del risveglio sorgeva dal collo incassato tra le spalle.

“L’uomo pende dalla croce, il suo corpo si inarca pesante su un lato – pensava Dietisalvi di Speme, esaminando la sua ultima opera – eppure sembra danzare, poiché non ho rinunciato alla sua bellezza. Ed egli è fatto a somiglianza di Dio, a immagine dell’Eterno”.

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il crocefisso di Dietisalvi di Speme

Il monastero di San Niccolò avvisò il pittore della sua attorniante presenza con un suono di campane, ed egli venne distratto per un momento dal corso dei propri pensieri. Poi la riflessione riprese: “Avrei potuto fare quei colori più smaglianti. Ecco, quel punto mi sembra opaco; la barba e la chioma sarebbero potute riuscire più calde e carezzevoli, le losanghe dello sfondo più cariche di luce. È la luce che si incarna nelle tinte, esse la spartiscono coi loro accostamenti. Il colore mi inonda il cuore e da lì risale alle sommità dell’anima”.

Il vecchio pittore, allo spegnersi della vita, celebrava tutti i suoi colori, mentre osservava il declino dell’essere umano nella raffigurazione da lui stesso sospesa ai bracci della croce sacrificale. E nel suo Gesù morente, nel Dio identificato con l’uomo, così come in molte altre croci dipinte e maggiormente in quella tanto più naturale e nuova di Cimabue, intravedeva anche la solitudine di chi dal dolore viene ghermito. Lo strazio rende soli, poiché nessuno vuole affratellarsi al dolore. Dopo aver pensato questo si guardò intorno e considerò la chiesa ed il monastero: sì, i cristiani danno l’abbraccio fraterno ai sofferenti, ché questo insegna l’Evangelio. Lui si trovava in un luogo di pace e conciliazione, dove viveva chi era disposto ad accogliere creature in pena. Sarebbe stato sempre tale quel luogo in cui il suo dipinto testimoniava la devastazione dell’umanità, insieme al suo bisogno disperato di aiuto? Cristo non deve essere soccorso, poiché egli è Dio, e risorgerà glorioso, come l’aureola d’oro dietro la sua testa; ma gli altri? Che ne sarà? Dio, il Dio che salva, vorrà riscattarli; ma fino a quel momento sovrumano quali uomini si incaricheranno di dar loro la speranza, di prestargli cure e conforto?

Dietisalvi di Speme, anziano pittore che ormai contemplava la fine della vita, si era avvicinato alla sua croce dipinta e facendosi schermo con le mani cercava di dirigere il proprio sguardo soltanto sul volto di Cristo: quel capo si piegava sulla spalla, cedeva al peso della sofferenza, soccombeva. Non c’era più nulla da fare: la vita lo aveva respinto.

Dietisalvi pensava in quel momento che l’arte del pittore è l’arte del guardare, e che questa è l’arte che salva o condanna. Chi altri, all’infuori del pittore, sapeva esercitarla?

 

Più di cinque secoli dopo, nello stesso luogo, lo sguardo di un uomo si posava sul volto di un altro uomo che era in fin di vita. Il monastero non esisteva più: al suo posto sorgeva una vasta struttura ancora in ampliamento, che ospitava il manicomio di San Niccolò.

L’uomo che guardava era Carlo Livi, il medico psichiatra che dirigeva il manicomio; l’uomo che moriva era un ricoverato. Il capo di questo giaceva reclinato sulla spalla; il volto era fissato in una grigia espressione di abbandono: le palpebre erano crollate su un sogno di sofferenza; una barba arruffata e spugnosa si univa a una chioma di capelli struffati e dispersi; la vita sembrava avere respinto quell’uomo per sempre. Non c’era più nulla da fare per lui. Dopo averlo osservato ancora, Livi lasciò costernato la stanza. Aveva perso quell’infermo.

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Carlo Livi

Con l’animo soffocato uscì all’aperto in cerca di sollievo, e fece ruotare lo sguardo intorno a sé. Il direttore nutriva un sogno, estrinsecato e già posto a realizzazione da quel cantiere di ampliamento sorto per sua volontà, il quale stava ora davanti ai suoi occhi: il sogno di una riforma morale, che alla cura dei malati di mente conferisse la dignità della ragione eterna del vero e del santo diritto dell’umanità. Non relitti da espellere dal seno della società dovevano essere i suoi alloggiati, ma i membri accuditi di una famiglia inferma: dunque per loro aveva previsto vita all’aperto, attività e lavoro, feste e intrattenimenti; e perché si svolgesse tutto ciò si era resa necessaria una sede rinnovata: quella che lui aveva ideato e messo in opera. Poiché non solo pane e contenzione occorrevano a quei viventi degni di compassione, ma un asilo di benevolenza, che facesse dell’Istituto di San Niccolò anziché un triste ricovero, o peggio un carcere di poveri mentecatti, un luogo di cura, una casa di Sanità.

Così aveva pensato di fare appello all’arte dell’architettura, la quale sull’esistenza vegetativa ponesse il segno della civiltà. Il progetto era stato affidato a Francesco Azzurri; il nuovo edificio si stava levando tra città e campagna.

Livi aveva in particolare posto ogni cura ad immaginare il quartiere destinato a ospitare gli agitati, i pazienti dai più forti turbamenti: esso sarebbe dovuto sorgere isolato, a debita distanza, sul verde pendio della collina dei Servi, nella quiete innanzi alla valle di orti, e offrire a ogni suo abitante una cella quasi conventuale che desse accesso verso l’esterno all’aria aperta. Un panopticon innovativo e ingentilito, che da struttura di sorveglianza per reclusi divenisse rifugio per infelici.

Immaginando i suoi futuri ospiti godere del sentore della natura aggirandosi tra la cella e un piccolo spazio verde cintato, il direttore oltrepassava il cancello dell’istituto e seguiva la strada che in pochi passi lo avrebbe condotto alla antistante chiesa del Santuccio e da lì passo dopo passo al cuore della città di Siena. Incrociando le persone che al pari di lui camminavano libere, lo psichiatra si domandava come sarebbe riuscito il suo panopticon.

 

È trascorso un secolo e mezzo. L’Ospedale psichiatrico di San Niccolò non esiste più. Le strutture di Francesco Azzurri si erigono tra le vie e la vasta area verde contenuta entro le mura medievali. Il quartiere pensato da Carlo Livi, modellato sul prototipo che John Conolly aveva concepito nell’Ottocento, è un grande padiglione tondeggiante, la cui decadenza solitaria è ora osservata dalle piante che ne hanno invaso i cortili e gli interni. La sofferenza umana che vi era stata è divenuta quella dei muri, scrostati, crollanti, crepati; gli edifici patiscono e declinano come gli esseri umani, loro costruttori, che gli hanno trasmesso il loro stesso destino. Le celle con gli angoli stondati marciscono, i tetti si abbattono, le travi si reclinano come il capo dei morenti. Il grido degli agitati ormai scomparsi è immobilizzato nelle pareti pericolanti.

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Il Conolly attuale

Ma lo sguardo di chi passa attraverso quei desolati ambienti scorge i segni della trasformazione, intuisce dietro i ruderi la vita possibile: come Carlo Livi aveva guardato un uomo in un reietto, come Dietisalvi aveva guardato un Dio in un uomo in croce.