Ricevo dall’amico Costante questa bella riflessione sulle preoccupazioni emerse in questi giorni sull’atmosfera che si respira a Ranza, il carcere di S. Gimignano. Sulla Nazione il suo pezzo è apparso già, ma in forma ridotta. Del resto che manicomi e carceri facciano parte degli stessi strumenti con cui la maggioranza di turno si occupa delle minoranze disturbanti è risaputo. A riprova metto a corredo del pezzo due foto che pur provenendo da ambienti del tutto diversi sembrano, a mio parere, raccontare quasi le stesse storie.
di Costante Vasconetto
Siamo abituati a vivere in un eterno presente, senza passato e senza futuro. Così non ci sorprende che, da un giorno all’altro, esploda il caso di San Gimignano. Magistratura, Ministri, ex Vicepresidenti del Consiglio e i Giornali tutti, scoprono una realtà che non è di ora. E’ un presente sì, ma dal cuore antico. Ogni carcere ha la sua storia, il suo percorso, la sua specifica realtà. Che va recuperata, ripresa e capita. A ben guardare il “cuore di pietra” di San Gimignano, come è stato definito da uno dei più intelligenti storici dell’arte, era in realtà un ex convento. Il San Domenico, trasformato in carcere nel 1833, e chiuso definitivamente nel 1995. Sostituito dalla “Casa di reclusione di Ranza” il carcere ha cambiato nome, si è trasferito in campagna, ma è rimasto lo stesso, di “pietra”. Progettato e costruito secondo i criteri più moderni è rimasto quello che era. Non poteva cambiare, il carcere. Non può diventare un altro, trasformarsi nella sua identità, smettere di essere se stesso. Io ho avuto l’occasione di visitarlo il San Domenico, non il Ranza, nel 1976. La Regione Toscana mi aveva incluso come psichiatra nella Commissione per la sorveglianza nelle istituzioni carcerarie della Provincia di Siena e di Grosseto. La mia relazione allora, dopo quelle visite, faceva riferimento ad alcuni elementi molto forti e coinvolgenti, trasferiti in una sensazione emotiva ed in una valutazione razionale.
La prima era una emozione claustrofobica. Quella di sentirsi lì dentro in pericolo, nella impossibilità di muoversi, con la paura di soffocare, come degli operai rimasti chiusi dentro una miniera per una frana. Usai allora il riferimento di chi si ritrova contro la sua volontà dentro un sommergibile, prigioniero di porte stagne, chiuse, inaccessibili tra uno spazio e un altro. Le celle chiuse, i corridoi sbarrati, l’ora d’aria a camminare avanti e indietro, magari da soli tra quattro mura. C’è chi la prova questa paura, la claustrofobia, dentro un ascensore, o in aereo, in un tempo comunque limitato. Non per anni.
La valutazione razionale prendeva invece origine dalla constatazione che carcerati e carcerieri condividono, e vivono, gli stessi spazi. Gli stessi rituali. Le stesse emozioni e preoccupazioni: gli orari, i controlli, le paure, le sfide, le provocazioni, le punizioni. Sono attori e spettatori delle stesse rappresentazioni, delle stesse recite, degli stessi psicodrammi. Costretti, obbligati, coatti, inchiavardati nei loro ruoli che si sostengono e si confermano a vicenda, diventano prigionieri dei loro personaggi, imprescindibili e necessari gli uni agli altri. Sono tutt’e due vittime di una specie di identificazione proiettiva che li incarcera a vita nella loro reciproca e terrificante identità.
Ma non si può però sottovalutare che più in generale, e per tutti noi, la “struttura architettonica” influenza e in una certa misura determina il nostro comportamento. Il campo profughi a Leros, i centri di accoglienza in Libia o nel Libano, o i rifugi di plastica e bambù dove vivono 700.000 profughi mussulmani rifugiati nel Bangladesh in una zona in cui cicloni e monsoni sono comuni, determinano pesantemente il comportamento, le regole di convivenza e di sopravvivenza, le passioni e le tensioni, gli scontri e le benevolenze, eccetera, eccetera, eccetera, di chi ci vive. In quei luoghi la struttura spinge a dei comportamenti diversi, da quelli per esempio, che la “struttura architettonica” di Riace determinava ai tempi di Mimmo Lucano sugli allora residenti, e non più rifugiati.
Ma per tornare al nostro “carcere”, Erving Goffman lo identificava già nel 1957 nel suo “Asylums” come una delle istituzioni totali, dove si esercitano i meccanismi della esclusone e della violenza. Luoghi dove le persone vengono relegate per un certo periodo di tempo, talvolta anche molto lungo o per sempre, perché considerate pericolose per sé stesse o per gli altri (es. manicomi, prigioni) oppure per il raggiungimento di specifici scopi (es. monasteri, furerie militari). Nei conventi e nelle caserme però, il soggetto si riconosce e si identifica con gli scopi e le finalità della istituzione, e l’isolamento è quindi una scelta volontaria. Nelle carceri e nei manicomi invece, lo status di persona istituzionalizzata è di fatto imposta, e deriva dal fatto di essere considerato pericoloso per se o per gli altri. Michel Foucault, pensatore francese, grande ricercatore e studioso delle devianze, e delle istituzioni per controllarle, pubblicava nel 1974 un testo fondamentale. “Sorvegliare e punire. Nascita della prigione”, che analizza la nascita e l’evoluzione dell’istituzione carceraria e critica gli strumenti della disciplina e della sorveglianza.
Ma sui fatti dei giorni nostri nel carcere di Ranza è soltanto la magistratura che potrà giudicare i comportamenti degli indagati. Dal mio punto di osservazione è invece interessante riflettere su quali potevano forse essere lo stato d’animo, la situazione mentale, il clima emotivo, le abitudini, le regole, le motivazioni che sottostavano a tali comportamenti. Non è certo fuori di luogo pensare subito al “burn out” o “esaurimento da lavoro”. Una situazione psicopatologica che nasce in risposta ad uno stress emotivo cronico e persistente. I sintomi sono quelli di un esaurimento fisico ed emotivo, tendenza a considerare le persone come oggetti, sensazione di perdita di significato del proprio operato e ridotta produttività. In genere colpisce coloro che sono impiegati nelle professioni di aiuto, nelle emergenze, nel sociale come medici, infermieri, poliziotti, vigili del fuoco, assistenti sociali. Proprio in questi giorni si è parlato dell’aumento dei suicidi nelle forze di polizia, 21 solo nei primi cinque mesi del 2019. I Sindacati di categoria, intervenuti ad un convegno sul tema a Firenze, hanno detto che tra le cause dell’aumento dei suicidi c’è il “burn out”. Sugli agenti pesano turni assai pesanti e l’impegno crescente di fronte alle nuove esigenze della sicurezza collettiva, e “si opera con organici sempre più ridotti e in difficoltà”. Così stando le cose, non è semplice né facile né scontato, riconoscere oggi dentro al carcere, i buoni e i cattivi.
Che non è certamente agli occhi di tutti un bed and breakfast.