L’immagine in evidenza è tratta da “L’albero della vita” di Gustav Klimt.
Molti ormai hanno imparato a distinguere tra memoria e storia, laddove il primo termine fa riferimento al ricordo spesso soggettivo, impreciso, variabile e multiforme di una vicenda ed il secondo invece si riferisce ad una ricerca sistematica della verità basata su fonti scritte e documentarie, insomma su qualcosa di più oggettivo.
Gli stessi due termini quasi si confondono anche semanticamente quando li trasferiamo nel campo medico. Raccogliere la storia del paziente è una delle operazioni più importanti, come ci è stato insegnato fin dall’approccio a quel corso di studi, che permette spesso solo con l’ausilio di quella metodica di fare o ipotizzare una diagnosi. Ma si basa sui ricordi del paziente, su quello che è in grado di dire di sé stesso e dei suoi “avi e collaterali”. E quindi a dispetto del nome “storia” è più la raccolta dei ricordi del paziente, molto spesso magari fondati, oggettivi e veri, ma quasi sempre interpretati ed in qualche modo trasformati dal lavorio della “memoria”. Intendiamoci per noi psichiatri questo è davvero pane per i nostri denti ed è lì, infatti, che il racconto di una storia ed il suo ascolto attento e partecipe finisce per essere solo uno strumento diagnostico e comincia a diventare un fattore terapeutico e curativo.
Se ci pensate non sono tante le situazioni in cui nella vita qualcuno mette a tua disposizione un ascolto attento, sereno e disponibile dandoti così modo di raccontare di te stesso sul filo dei ricordi, magari rispondendo a poche iniziali domande. In quella situazione il confine tra oggettivo e soggettivo comincia a sfumarsi, si perde l’ossessione della verità oggettiva ed aumenta l’interesse per come il soggetto ha visto e vissuto le sue vicende. Fin dall’inizio in cui si fanno le prime semplici domande: come si chiama? dove è nato? chi sono i suoi? e così via.
È ovvio che queste domande cercano sia il contenuto oggettivo (il più facile da riportare) sia quello soggettivo in grado di farci apprezzare emozioni, impressioni su quegli stessi semplici fatti che trovano così la capacità di aprire squarci di conoscenza. Le memorie dell’esperienza passata (malattie, traumi, amori, sentimenti e tanto altro) non si conservano nei magazzini della mente come documenti magari ingialliti ma in buon ordine, facili da ritrovare quando decidiamo di consultarli. I ricordi una volta archiviati non si conservano immutati ma cambiano continuamente mentre stanno in quei magazzini. Come dice la Manfredi Turillazzi, grande psicoanalista fiorentina da poco scomparsa: “mutano i tempi, i luoghi, le atmosfere e mutano perfino i fatti. E come questa mutazione avvenga è ancora un po’ misterioso. Dopo tutto la psicoanalisi è nata occupandosi della memoria e dell’oblio o meglio di una specifica operazione difensiva: la rimozione. Freud pensò che la rimozione agisse rompendo i legami associativi.”
O forse – e questo lo dico io molto più modestamente – anche contaminando i legami tra loro e imparentando ricordi con ricordi a volte anche indebitamente.
Tutto quello che ho detto sopra dovrebbe far capire come sia difficile aspirare alla scientifica oggettività nello studio dei casi clinici.
Se è difficile valutare appieno una persona avendola di fronte, ponendogli le giuste domande ed ascoltando con orecchio addestrato le sue parole, figuriamoci quale grado di difficoltà si affronta quando questa valutazione è affidata ad un documento come una vecchia cartella clinica. Pensateci solo per un attimo: lo scritto è il risultato di un filtro già di per sé (non si può mai scrivere tutto di un colloquio) su quello che una persona ha capito intorno alla seconda che gli rispondeva (come? era affabile, scontento, diffidente, impaurito?) alle semplici domande postegli. Come un liquido che passa attraverso diversi filtri e che quando arriva in fondo è, nel migliore dei casi, certamente modificato rispetto all’inizio. E non mi sono soffermato sulle variabili relative al primo interlocutore che pure in quel preciso momento era il portatore di un intero mondo di fatti, emozioni e sentimenti.
A tutte queste riflessioni mi è capitato spesso di pensare studiando le vecchie cartelle cliniche del San Niccolò. Questa non è ricerca! – a volte mi capitava di pensare – sono solo le tue impressioni. Ma il tempo passato su quelle carte, l’interesse suscitato, le investigazioni che spesso si sono mosse da quei casi, come si dovrebbero chiamare?
Credo cioè che anche quel lavoro si guadagni la dignità di una ricerca storica sulla soggettività di un essere umano, con a volte una buona probabilità di arrivare a conclusioni piuttosto affidabili nonostante le grandi difficoltà che credo, con onestà, di essermi messo davanti ed avervi raccontato.
Barcamenarsi tra oggettivo e soggettivo è un’operazione difficile e faticosa ma che ci abitua a sostenere l’esitazione interiore ed a rinunciare alla protettiva certezza di avere la verità in mano.
I poeti come sempre arrivano prima di tutti all’espressione della verità attraverso una capacità di sintesi e di profondità. Montale (1971 – Satura) in poche parole riesce ad esprimere con eleganza quello che, con fatica, ho cercato di dire:
“Non c’è un unico tempo: ci sono molti nastri
Che parallelamente slittano
Spesso in senso contrario e raramente
S’intersecano.”