Giovanni Roy e Siena: un rapporto impossibile.

 

 

Riceviamo da Andrea Laiolo la recensione sul libro di Friscelli e Manganelli: “Giovanni Roy, il pittore che odiò Siena”. Laiolo, piemontese ma con forti legami con Siena, è scrittore e attore. Volentieri la pubblichiamo nella nostra rassegna stampa.

Negli anni in cui nell’Impero Absburgico Mahler componeva sinfonie in cui l’ego dell’uomo contemporaneo svelava le sue falle mentre lo spirito immortale ambiva a ricomporle tra antichi, immacolati corali, danze popolari, sospesi scenari alpini e visioni trascendentali, in un contrasto non sanato tra favolosi tempi passati ormai consegnati all’eterno e disingannati tempi presenti già assegnati alle angosce del dubbio, giù in Italia, verso il cuore del Mediterraneo e nel cuore stesso d’Italia, vale a dire nella appartata, chiusa e circoscritta Siena, in cui quel contrasto tra presente e passato era stato per sempre risolto con la glorificazione di questo, scese un uomo che proprio a Vienna e in altre capitali della cultura europea e del suo aperto mondo aveva intrapreso la carriera di pittore: Giovanni Roy

Figlio di un pittore italiano affermato e di una russa di nobili origini, Giovanni Vassily Roy nacque ad Heidelberg nel 1866, nello stesso decennio in cui nacquero Gustav Klimt, Gustav Mahler, Richard Strauss e Ferruccio Busoni, altro grande compositore e con ogni probabilità il più grande pianista italiano d’ogni tempo. Giovanni non ebbe evidentemente nel mondo di lingua tedesca la stessa fortuna professionale che sarebbe toccata proprio a Busoni: infatti dall’ambiente cosmopolita europeo discese verso il 1910 nella piccola Siena, per ragioni che sono tuttora avvolte dal mistero; ma questa circostanza del tutto peculiare fa ragionevolmente pensare a dei dissesti nella sua carriera, che giustificherebbero tale suo ripiegamento verso la provincia italiana. 

Insomma, Roy giunse a Siena verosimilmente deluso, arrabbiato e prevenuto, nostalgico dell’ampio respiro culturale delle capitali in cui era vissuto.  E in poco tempo si segnalò nel ristretto ambiente senese per comportamenti nervosi e addirittura violenti, a carico in particolare della moglie, scrittrice peraltro e attivista umanitaria, e della loro giovane figlia, ma non solo.  

Siena, a differenza dell’uomo contemporaneo aveva tenuto insieme la sua anima identificandola fermamente coi fasti del suo grande passato e difendeva ad oltranza, e continua a farlo, la propria cellula. Giovanni Roy invece si disgregò per non aver saputo guardarsi dentro, ma soltanto proiettare a dismisura l’immagine esteriore del proprio ego, in un conflitto irriducibile sia con il contesto in cui si era ritrovato a tentare di operare, sia e forse soprattutto con sé stesso: conflitto consapevole nel primo caso, del tutto inconsapevole nel secondo; circostanza quest’ultima particolarmente grave e dalle tragiche conseguenze. Fatalmente dunque tra Roy e la città del Palio non ci poteva essere compatibilità alcuna: nature opposte: Roy era un individuo contemporaneo, smarrito tra le falle della propria personalità; Siena un’anima intatta, votata ineluttabilmente, ieri come oggi, a tutelarsi e ad innalzare barriere di autoconservazione. 

Ed ecco che Giovanni viene portato in Questura e poi ricoverato nell’Ospedale Psichiatrico di San Niccolò. La sua sarà una rapida degenza – 56 giorni – ma sufficiente perché l’illustre ricoverato coltivi da allora in poi un risentimento divorante nei confronti del direttore dell’ospedale Antonio D’Ormea, del personale medico, e di tutta Siena, colpevoli per lui di averlo rinchiuso senza motivo, di averlo giudicato pazzo senza esporgliene le ragioni, in sostanza di avergli tolto arbitrariamente libertà e dignità. A Roy non bastò essere rilasciato come guarito: la ferita nella sua dignità e nel suo ego si era ormai prodotta, profonda, immedicabile; ed ecco che alla vocazione artistica in lui se ne sostituì un’altra, quella del cupo giustiziere di sé stesso. Roy denunciò la Questura e gli psichiatri del San Niccolò per sequestro di persona, ed impiegò il resto della sua esistenza, un decennio, nel tentativo di ottenere una giustizia la cui legittimità esisteva soltanto nella sua testa. Tragicamente frustrato in quest’altra ambizione per lui divenuta decisiva, Giovanni si uccise con un colpo di pistola proprio allorquando gli infermieri tornavano a prelevarlo per condurlo nel manicomio questa volta di Ferrara, città in cui si era trasferito da tempo: questo particolare dimostrando che la colpa del suo infelice destino non era evidentemente dell’odiata Siena.  

La sua singolare parabola potrebbe essere sintetizzata in questa formula: diventare pazzo per aver troppo desiderato dimostrare di non esserlo. Un paradosso tragico-grottesco degno di un personaggio di Dostoevskij o di Kafka, due autori che infatti, molto opportunamente, Francesco Ricci cita in relazione a Roy nella sua bella prefazione al libro di Andrea Friscelli e Riccardo Manganelli cui è toccato il compito di farci conoscere questo personaggio estremo, dalla esemplare e tragica vicenda, altrimenti dimenticata. 

Pubblicato a Siena sul finire del 2018 dalla Betti Editrice, il libro scritto da Friscelli ed illustrato da Manganelli si intitola: Roy. Il pittore che odiò Siena.  

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Oltre al merito di descrivere puntualmente il personaggio e il contesto sociale in cui si mosse, il volume ha quello di approfondirne il caso cogliendone le sfaccettature storiche e rilevando molti spunti interessanti; in particolare gli autori riportano obiettivamente i fatti e danno interpretazioni che non pendono per nessuna delle due parti in gioco – Roy da un lato e i suoi “antagonisti” dall’altro – ma lasciano in sospeso qualunque giudizio definitivo; inoltre il libro riporta in appendice la documentazione diretta di cui si poteva disporre: la corrispondenza tra Roy e D’Ormea successiva al ricovero e soprattutto il piccolo libro polemico, un vero e proprio pamphlet, che Roy scrisse e pubblicò a tiratura limitata nel 1912, con l’intento di denunciare non solo i soprusi che riteneva di aver subito ma anche le mancanze, le iniquità e le storture dei manicomi in Italia: “La beffa senza cena”, dal significativo sottotitolo Per la riforma della legge sui manicomi.  

In questo scritto Roy non mostra solo livore, ma anche acume e capacità di intuire, con chiaroveggenza rispetto alla coscienza del tempo, alcuni dei limiti con cui la scienza medica si muoveva allora nei confronti delle malattie psichiatriche e del trattamento dei malati, fermo restando che lui non si considerava affatto, forse a ragione, uno di questi.  

Il pamphlet, il cui titolo è una parodia di quello della commedia di Sem Benelli allora molto conosciuta “La cena delle beffe”– sarcasmo col quale egli intendeva segnalarsi come uomo di cultura rispetto all’ignoranza ed insipienza dei suoi sedicenti curatori – contiene effettivamente delle osservazioni non trascurabili, come ad esempio quelle sui rapporti tra i malati (presunti) e le loro famiglie. 

Bella anche la critica al determinismo di ascendenza lombrosiana, il quale – secondo Roy – pare quasi voler porre un ordine artificiale, usando a tal scopo violenza, in una condizione, come quella umana, che di per sé è caotica e non determinabile. Sul fondo del suo pensiero pessimista, Roy sembra voler suggerire di studiare caso per caso, e non porre norme che la complessità del reale smentirebbe. E ancora troviamo nel suo pamphlet il concetto di bisogno incondizionato di sottomissione ad una autorità, bisogno sentito come una debolezza umana. 

Paradossalmente Roy, che vede nella sottomissione al principio di autorità una debolezza umana e un errore, richiede però per sé l’autorità conferita dalla sofferenza, quasi essa lo rendesse superiore a chi aveva tentato di arginarne le intemperanze, di impedire alle sue inquietudini di degenerare a danno del prossimo. La situazione in cui si trova quando viene condotto al commissariato, lui la descrive come il risultato di un oscuro complotto; mentre propende a qualificare i propri errori come effetti del caso; col risultato che evoca una situazione, lo ripetiamo, quasi kafkiana. Egli pare rissoso, tracotante; ed era comunque un tale che andava in giro con una rivoltella in tasca, consapevole di farlo senza licenza, essendo la sua scaduta dopo l’ultimo soggiorno all’estero.  

Fa poi confronti poco logici tra le città dove era stato conosciuto e ben inserito e la città dove non lo è, ovviamente a svantaggio d questa. Mi sembra evidente che Siena, la sua comunità, non abbiano avuto alcuna colpa verso Roy: egli era depresso quando vi capitò, e povero di mezzi; fu facile per un egotico come lui incolpare le circostanze e l’ambiente più che sé stesso. 

Il suo prezioso pamphlet è scritto in uno stile involuto, ostentato, pretenzioso; ed è pensabile che egli fosse in fondo un dispregiatore della vita e del prossimo. Mediocre pittore, ma pregevole nei ritratti. 

Tornando in conclusione al prezioso e decisivo contributo di Andrea Friscelli e Riccardo Manganelli alla riscoperta di questa impressionante vicenda, si tratta di un libro suddiviso in cinque parti, due delle quali simultanee: una introduzione che presenta i fatti e il protagonista; una narrazione che ricostruisce gli avvenimenti, condotta sul piano letterario e in parallelo su quello grafico dalle strisce disegnate da Manganelli, le quali a loro volta presentano il corredo testuale di battute e didascalie; le riflessioni finali e la cospicua appendice, che contiene, come già abbiamo detto, oltre alle lettere di Roy e D’Ormea l’intero pamphlet “La beffa senza cena”. 

 

Insieme al testo limpido, articolato e obiettivo di Friscelli, la parte grafica concorre a formare un libro dalla struttura a strati e incastri, il quale contiene indistricabilmente testi e sotto testi. Eppure, nonostante questa sottesa complessità, esso si svolge in maniera agile e sciolta, con una veste agevole e stimolante per il lettore.

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Andrea Laiolo

 

Andrea Friscelli – Riccardo Manganelli: Roy – il pittore che odiò Siena – un’altra storia del San Niccolò; Betti Editrice; Siena 2018