5 – Kohut o dell’empatia

Non andartene docile in quella buona notte,
I vecchi dovrebbero bruciare e delirare al serrarsi del giorno;
Infuria, infuria, contro il morire della luce
Dylan Thomas (1951)

 

 

Siamo a Berkeley, California, ed è la mattina di domenica 4 ottobre 1981, la giornata bella, il sole caldo ed il verde dei prati ancora brillante. Si sta concludendo presso la locale Università l’annuale Convegno di Psicologia del Sé. La sala delle conferenze è stracolma, ci sono circa quattrocento persone a sedere ed almeno un altro centinaio si aggira nei corridoi e negli spazi esterni. Il congresso è cominciato giovedì ed è andato avanti venerdì e sabato con le relazioni degli iscritti e le relative discussioni. Ma lui ancora non si è visto e questo crea un pizzico di preoccupazione tra i partecipanti, nessuno può pensare che proprio il fondatore non partecipi, non si faccia almeno vedere. Nei tre incontri precedenti a quello, Kohut era stato onnipresente, parlando in ogni occasione possibile.

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l’università di Berkely

Ma stavolta è un uomo molto malato, da circa dieci anni combatte con un linfoma che ormai sta per avere il sopravvento su di lui. Aveva sempre difeso gelosamente con tutti il suo stato di salute, solo in pochi sapevano le sue reali condizioni e la natura del male con cui stava combattendo. Ma la sua assenza è ormai una cosa quasi imbarazzante ed ha creato una certa preoccupazione nella grande sala.

Poi all’improvviso, verso le dieci e mezzo, si sparge la voce che Kohut sta arrivando. Una ambulanza si ferma nel piazzale antistante e lui sale su una carrozzina che lo accompagna fino alla soglia della sala. A quel punto tutti ammutoliscono vedendo arrivare dal corridoio centrale una figura magra, pallida, quasi eterea che però si muove sulle proprie gambe con decisione verso il palco degli oratori. Molto dimagrito, ormai sfiora i 45 chili, può stare seduto su una seggiola solo con un cuscino. Ha una massa di capelli candidi e, senza apparente difficoltà, sale sul palco e si ferma al lato più vicino del tavolo. Il suo carisma per molti è rimasto intatto e si conferma ancora quando prende la parola, ma a quel punto tutti hanno capito che le condizioni di Kohut sono diverse dal solito, un’aria drammatica aleggia nella sala e per questo nessuno fiata quando comincia a parlare.

Porta, scusandosi di tornare ancora una volta su quel tema, una comunicazione su uno dei suoi cavalli di battaglia: l’empatia. L’empatia – argomenta – è il modo di conoscere proprio della psicoanalisi e la precondizione per qualunque guarigione in psicoterapia. Un terapeuta davvero empatico può avere già di per sé un sostanziale effetto terapeutico. Ma – sottolinea con decisione – l’empatia non può essere l’unico elemento di un trattamento. La terapia consiste in empatia e spiegazione ed è questa combinazione esclusiva che la caratterizza e ne garantisce gli effetti.

Parla con continuità per mezzora, fermandosi ogni tanto per riprendere fiato e bere un sorso d’acqua. Poi dice che è stanco e che deve salutare l’uditorio. Ma ha qualche difficoltà a terminare, forse anche perché si rende conto che quello sarà il suo ultimo intervento pubblico. Ha la forza per un ultimo aneddoto clinico. Racconta che una donna disperata gli disse un giorno in seduta che si sentiva come già dentro la bara, mentre il coperchio sta per chiudersi. A lui venne in testa, in quel momento drammatico, l’idea che forse le potesse far piacere aggrapparsi alla sua mano. Una manovra che un analista freudiano classico avrebbe definito discutibile, se non del tutto “scorretta”, ma la donna era disperata e “così – racconta – portai avanti il braccio e gli offrii la mia mano. La paziente afferrò con forza le mie dita e non le lasciò per il resto della seduta” –  conclude.  Quel gesto insolito ma molto empatico risolse un drammatico impasse terapeutico e Kohut lo cita in quella sua storica relazione per incoraggiare l’utilizzo di atteggiamenti empatici nei momenti critici.

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l’ultima apparizione di Kohut

Poi sente che il tempo a disposizione è finito e saluta dicendosi sicuro che quello sarà il suo ultimo convegno.

A quel punto ormai tutti hanno capito che stanno assistendo al suo addio e si scatena una standing ovation che dura per alcuni minuti. Quando scende dal palco in molti gli si fanno incontro, lo vogliono salutare, toccare, avvicinare. Lui quasi spaventato si rivolge al suo accompagnatore e lo prega di difenderlo da tutta quella gente e così riesce a uscire e salire di nuovo sull’ambulanza che lo aveva accompagnato. Appena fuori della sala lo attendono la moglie ed un amico che lo riaccompagnano all’hotel. Con l’assistenza dello stretto entourage familiare riesce, il mattino successivo, a prendere il volo per tornare nella sua Chicago. Il martedì mattina rientra al Billings Hospital dove, prima dell’alba di giovedì 8 ottobre 1981, muore.

 

Finisce così in piena notte, al contrario di quello che i versi di Dylan Thomas gli avrebbero augurato, la vita di Heinz Kohut (1913 – 1981), l’austriaco ebreo trapiantato ormai da quasi quarant’anni negli Usa. Non è stata la sua una vita lunga, ma le vicende che, al suo interno, si sono succedute spesso fanno pensare a due, tre vite vissute una dopo l’altra. Prima il periodo viennese con gli studi di Medicina, poi il trasferimento negli Usa, l’impianto a Chicago dove comincia a interessarsi di più di psicoanalisi e poi infine l’esplosione creativa che lo porterà ad essere lo psicoanalista più conosciuto negli States, tanto che per un periodo viene definito “mister Psicoanalisi”. Come forse avrete già notato, ci sono curiose coincidenze che delineano alcune somiglianze tra lui e Freud. Anche lui inizia come neurologo per poi passare alla Psichiatria, anche lui è costretto a lasciare Vienna nei tempi bui del Nazismo, ed anche lui, sia pure molto più giovane, emigra, prima in Inghilterra (dove trascorre un anno in un campo profughi in attesa di avere i documenti per l’America) e da lì infine fa il grande balzo verso gli States.

Ha sempre raccontato di aver avuto un fuggevole incontro con Freud alla stazione di Vienna proprio nel giorno in cui il Maestro stava lasciando la città austriaca per Londra, attorniato da coloro che lasciava e che lo salutavano piangendo. Nel suo racconto lui, già ammiratore delle sue teorie ma del tutto sconosciuto al vecchio Freud, si reca alla stazione, avendo saputo che stava per partire, e accenna un gesto di saluto verso quel grande vecchio che, per semplice educazione, risponde toccandosi il cappello e sorridendogli. Questo ricordo, nel tempo, ha assunto il significato quasi mitico di una sorta di passaggio di testimone tra lui e Freud. La sua parabola di studioso in effetti per molto tempo rimane nell’ombra della ortodossia freudiana, poi già in avanti con gli anni, nel corso di quel fermento creativo che lo coglie dopo i sessanta già accennato qualche rigo sopra, Kohut se ne distacca e veleggia libero nel mare della psicoanalisi. Scrive in rapida successione tre libri importantissimi e raccoglie intorno a sé, all’istituto di Chicago, un notevole numero di allievi e colleghi.

Al suo arrivo (1940) negli States la psicoanalisi americana era dominata dalla scuola freudiana con Anna Freud come garante ed esponente principale. L’indirizzo prendeva il nome di Psicologia dell’Io rifacendosi appunto alla stretta ortodossia del Maestro. Ricorderete dalla prima scena che Kohut prima di morire partecipa al convegno dell’orientamento che aveva fondato ed a cui aveva dato il nome di Psicologia del Sé. Quali le differenze?

Il modello freudiano collocava il conflitto all’interno dell’Io, principalmente tra le pulsioni provenienti dall’Es e le istanze morali del Super Io. Per questo qualcuno la definiva una psicologia mono personale, tutto, infatti, si svolge nella testa della singola persona. La psicoanalisi di Kohut invece si fonda sul concetto di Sé e media la transizione dalle teorie pulsionali a teorie motivazionali più complesse. Kohut, infatti, sceglie di parlare del Sé, il nucleo più profondo e identitario di ciascuno di noi, come di un’entità au­tonoma, priva di conflitto in sé. Per la sua teoria non esiste un Sé in astratto al di fuori di un ambiente interpersonale capace di scambi e rapporti. Quindi la radice degli eventuali conflitti viene collocata nel rapporto con le persone significative (quelle vere e non quelle interiorizzate, come sosteneva la Klein). Il Sé è visto come qualcosa che interagisce con l’ambiente, (mentre Freud vedeva l’Io in perenne conflitto con le pulsioni) che può farlo crescere o arrestare a seconda delle sue caratteri­stiche (come l’empatia dei genitori); il conflitto “abita” in quello spazio che esiste tra il Sé e gli altri.

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l’immagine ufficiale di Kohut

E veniamo alle due parole che più di altre rappresentano il pensiero del “nostro”: empatia e narcisismo.

Le parole hanno una vita, se ne stanno per anni nell’angolo riparato del loro gergo e poi d’improvviso invece diventano famose, utilizzate da tutti, quasi inflazionate. Questo sta capitando alla parola empatia. Ormai tutti la citano, appiccicandola a qualunque situazione: dal gatto di casa che è molto empatico, al leader politico che invece ne è del tutto privo.

Così si rischia di perderne il significato vero. Che è chiaro, e definisce la capacità di comprendere lo stato d’animo e la situazione emotiva di un’altra persona, in modo immediato, prevalentemente senza ricorso alla comunicazione verbale. Quindi identifica la capacità di immedesimarsi nell’altro, di leggere i suoi pensieri a volte in maniera più chiara di quanto lo stesso soggetto sia in grado di fare. Questo, a mio parere, non è la stessa cosa di dare al termine il significato estensivo che oggi lo fa diventare sinonimo di buono, simpatico, gentile, comprensivo.

Kohut definisce scientificamente l’empatia dandole un duplice significato. Prima la identifica come lo strumento conoscitivo principe della psicoanalisi. Se l’ambiente fisico può essere indagato con le nostre percezioni o con vari sussidi meccanici, per il nostro mondo interiore possiamo fare affidamento solo sull’introspezione e la sua forma vicaria, l’empatia. Quindi l’empatia è una forma di introspezione, uno strumento appunto, che qualcuno mette a disposizione di un altro che per vari motivi non ne è provvisto o lo è in maniera minore. Quindi è in primo luogo uno strumento che può essere “addestrato” e poi utilizzato in maniera professionale.

In secondo luogo l’empatia rappresenta una vera e propria tecnica terapeutica che consiglia di utilizzare e lavorare con l’elaborazione delle emozioni provenienti dal paziente, raccolte attraverso quello strumento. Porta come esempio la considerazione che, se anche certi fenomeni possono essere misurati strumentalmente, per esempio le onde sonore di certe parole, è certo però che solo con l’empatia possiamo riconoscere se sono state pronunciate con rabbia o con altre emozioni.

Questa visione rivalutata dell’empatia mette in grado Kohut di portare un soffio di maggiore umanità all’interno di una pratica clinica che fino ad allora era un po’ “inamidata”. Tutto questo comportò cambiamenti anche nella tecnica clinica. Infatti la Psicologia del Sé rappresentò anche una reazione alla tecnica psicoanalitica classica caratterizzata da atteggiamenti, fortemente raccomandati durante la formazione, che un analista doveva tenere in seduta quali anonimità, astinenza, neutralità, distanza emotiva, ecc.

Altro suo merito è stato inoltre quello di aver “sdoganato” il concetto di narcisismo che fino a quel punto soffriva di un cattivo giudizio. Considerato come necessario, nella visione freudiana, nello sviluppo mentale infantile, doveva poi essere abbandonato quasi del tutto, tanto che il Maestro usava tale termine per definire le psicosi. Chi non riusciva cioè a liberarsi dell’eccesso di narcisismo infantile andava incontro a malattie gravissime definite appunto nevrosi narcisistiche. Kohut invece sostiene che il narcisismo anche nella persona adulta è uno dei due naturali canali di investimento dell’energia psichica che si divide in parti quasi uguali tra sé stessi e gli oggetti esterni.

Più in generale, si può dire che Kohut si trovò a confrontarsi con l’era del narcisismo, iniziata nelle ultime decadi del Novecento, tipica delle società ricche e benestanti, che spesso producono persone ossessionate dal proprio successo. Questo nuovo assetto sociale avrebbe prodotto quello che Kohut stesso definì l’uomo “tragico”, ben diverso dall’uomo “colpevole” che attirò l’interesse di Freud ai primi del Novecento.

Molte delle patologie di cui Kohut si è occupato sono ancora del tutto attuali. In tal senso le sue riflessioni a proposito di fenomeni come l’erotizzazione, soprattutto se perversa e masturbatoria, o come altre stimolazioni forti come l’uso di droghe, il gioco d’azzardo, o le automutilazioni, ci risultano ancor oggi particolarmente utili. A suo parere tali fenomeni possono servire a compensare un senso di depressione, di malessere interiore o di “frammentazione del Sé” non altrimenti gestibile, per mezzo di una forte sensazione fisica, anche se dolorosa, che risveglia e “compatta” la psiche.

Insomma la sua psicoanalisi fa ancora un passo in più sulla strada indicata dalla Klein, approdando ad una visione dell’uomo in cui l’altro non è più solo un oggetto del mondo interno, ma acquista la piena valenza di persona reale.

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Heinz Kohut

Prima di concludere sono debitore ai lettori di una promessa fatta durante il pezzo su Freud. Dicevo in quella puntata che Kohut pesca dalla classicità un mito diverso da quello di Edipo.

Lo fa in uno dei suoi testi più interessanti: Le due analisi del signor Z., testo autobiografico, nel quale racconta le analisi (due appunto) a cui si sottopose nel periodo della propria formazione. In quello scritto cita il mito della pazzia di Ulisse.

Nei preparativi della guerra di Troia, Palamede, il reclutatore inviato da Agamennone alla ricerca dei migliori combattenti achei, arriva ad Itaca. Ulisse, per via della profezia di una lontananza lunghissima da casa, non ha alcuna voglia di arruolarsi e decide di fingersi pazzo per non partire. Così si fa trovare sulla riva del mare intento ad arare la spiaggia e a seminare sale, comportamento senza senso, da pazzo. Ma Palamede non si fida e con un gesto improvviso si impadronisce del piccolo Telemaco e deposita il neonato proprio sulla linea dell’aratro di Ulisse. Che recuperando improvvisamente la lucidità, fa compiere al vomere una deviazione a semicerchio (che Kohut battezza “il semicerchio della salute mentale”), evitando così di fare del male al figlio. Certo, a quel punto la sua finta pazzia è svelata e ad Ulisse non resta che accettare il pressante invito di partire per la guerra. Ma il figlioletto, che rappresenta il suo futuro, è intatto e salvo. È un modo diverso di interpretare la genitorialità: nel mito di Edipo, Laio e Giocasta sono dannati da una sorte tragica che li sovrasta privandoli di scelta, qui invece prevale la salute mentale, la capacità paterna di proteggere un figlio e di dirigere autonomamente il proprio destino.